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Con ordinanza n. 916/2023, il Tribunale di Roma, Sezione Fallimentare, in integrale accoglimento delle argomentazioni difensive dello Studio, ha affermato che l’escussione, da parte dell’Istituto di Credito mutuante, del pegno sulle quote della parte finanziata, e la conseguente nomina di un componente del consiglio di amministrazione di propria derivazione, non determina un’ipotesi di eterodirezione (amministrazione di fatto), né tantomeno la ricorrenza di una società di fatto tra le parti dell’operazione.
La vicenda. Un rilevante Istituto di Credito, fortemente impegnato in operazioni di real estate, ha finanziato l’acquisto, la riconversione e la ristrutturazione, funzionale alla commercializzazione frazionata di unità residenziali di pregio, di un immobile cielo-terra ubicato nel centro di Roma. Durante l’operazione, la parte finanziata si è resa inadempiente alle obbligazioni assunte, dando seguito a lavorazioni non previste dal progetto e non restituendo le rate del finanziamento, così che la Banca si sia indotta ad avvalersi del pegno sulle quote, (i) mutando la governance della Società (passando da un organo monocratico ad un organo collegiale), (ii) e nominando un amministratore di propria derivazione (deputato al compimento di mera attività di verifica). In esito al default dell’operazione, è stato contestato che tale attività avesse dato luogo ad una società di fatto e/o ad una forma di eterodirezione, con conseguente asserita corresponsabilità dell’Istituto di Credito nei risultati – negativi – ottenuti dalla Società. Con la pronuncia in commento il Tribunale di Roma, declinati i presupposti necessari alla configurazione della società di fatto, e/o di una forma di amministrazione indiretta, (i) ha rilevato “che lo svolgimento di funzioni di gestione e controllo di una società (per lo più di capitali) non è elemento sufficiente ad attribuire la qualità di socio al soggetto che tali funzioni svolge e, pertanto, a configurare l’eventuale prestito di denaro alla stregua di un conferimento di capitali”; (ii) ha escluso la sussistenza di attività gestorie riferibili all’Istituto di Credito, laddove “la società era governata da un consiglio di amministrazione di cui un solo componente era espressione del creditore pignoratizio”; (iii) ha quindi motivatamente affermato che tra la Banca e la Società non si fosse “instaurato un rapporto di carattere sociale atteso che di certo la Banca non intendeva partecipare agli utili dell’operazione condotta dalla società fallita ed ancor meno assumersi i rischi dell’operazione” non avendo versato quanto mutuato a titolo di conferimento, ma piuttosto avendo mutuato “un considerevole importo di denaro costituendo, invero, non solo garanzie di carattere ipotecario ma anche di diversa natura a garanzia del proprio investimento”.
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